Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della cerimonia per il centenario della nascita di don Lorenzo Milani
Ricordiamo oggi, nel centenario della nascita, don Lorenzo Milani.
È stato anzitutto un maestro. Un educatore. Guida per i giovani che sono cresciuti con lui nella scuola popolare di Calenzano prima, e di Barbiana poi.
Testimone coerente e scomodo per la comunità civile e per quella religiosa del suo tempo. Battistrada di una cultura che ha combattuto il privilegio e l’emarginazione, che ha inteso la conoscenza non soltanto come diritto di tutti ma anche come strumento per il pieno sviluppo della personalità umana.
Essere stato un segno di contraddizione, anche urticante, significa che non è passato invano fra noi ma, al contrario, ha adempiuto alla funzione che più gli stava a cuore: fare crescere le persone, fare crescere il loro senso critico, dare davvero sbocco alle ansie che hanno accompagnato, dalla scelta repubblicana, la nuova Italia.
Don Lorenzo avrebbe sorriso di una sua rappresentazione come an=moderno se non medievale. O, all’opposto, di una sua raffigurazione come antesignano di successive contestazioni dirette allo smantellamento di un modello scolastico ritenuto autoritario.
Nella sua inimitabile azione di educatore – e lo possono testimoniare i suoi “ragazzi” – pensava, piuttosto, alla scuola come luogo di promozione e non di selezione sociale.
Una concezione piena di modernità, di gran lunga più avanti di quanto si attardavano in modelli difformi dal dettato costituzionale.
Era stato mandato qui, a Barbiana, in questo borgo tra i boschi del Mugello – con la chiesa, la canonica e poche case intorno – peché i suoi canoni, nella loro radicalità, spiazzavano l’inerzia.
La sua fede esigente e rocciosa, il suo parlare poco curiale, i suoi modi, a volte impetuosi, lontani da quelli consueti, destavano apprensione in qualche autorità ecclesiastica.
In tempi lontani dalla globalizzazione e da internet, da qui, da Barbiana – allora senza luce elettrica e senza strade asfaltate – il messaggio di don Milani si è propagato con forza fino a raggiungere ogni angolo d’Italia; e non soltanto dell’Italia.
Don Milani, aveva una acuta sensibilità circa il rapporto – che si pretendeva gerarchico – tra centri e periferie.
Come uscire da una condizione di emarginazione? Come sollecitare la curiosità, propulsore di maturità? Come contribuire, da cittadini, al progresso della Repubblica?
Il motore primo delle sue idee di giustizia e uguaglianza era proprio la scuola. La scuola come leva per contrastare le povertà.
Non a caso oggi si usa l’espressione “povertà educativa” per affermare i rischi derivanti da una scuola che non riuscisse a essere veicolo di formazione del cittadino.
La scuola per conoscere.
Per imparare, anzitutto, la lingua, per poter usare la parola.
“Il mondo – diceva don Milani – si divide in due categorie: non è che uno sia più intelligente e l’altro meno intelligente, uno ricco e l’altro meno ricco. Un uomo ha mille parole e un uomo ha cento parole”.
Si parte con patrimoni diversi. Da questa ansia si coglie il suo grande rispetto per la cultura.
La povertà nel linguaggio è veicolo di povertà completa, e genera ulteriori discriminazioni.
La scuola, in un Paese democratico, non può non avere come sua prima finalità e orizzonte l’eliminazione di ogni discrimine.
“Lettera a una professoressa”, scritta con i suoi ragazzi mentre avanzava la malattia – che lo avrebbe portato via a soli 44 anni – è un atto d’accusa, impietoso, di tu7o questo.
“Lettera a una professoressa” ha rappresentato una lezione impartita a fronte delle pigrizie del sistema educativo e ha spinto a cambiare, ha contribuito a migliorare la scuola nel mezzo di una profonda trasformazione sociale del Paese.
Ha aiutato a comprendere meglio i doveri delle istituzioni e sollecitato a considerare i doveri verso la comunità.
Sempre più gli insegnanti, hanno lavorato con passione per attuare i nuovi principi costituzionali. Perché a questo occorre guardare.
La scuola è di tutti. La scuola deve essere per tutti.
Spiegava don Milani, avendo davanti a sé figli di contadini che sembravano inesorabilmente destinati a essere estranei alla vita scolastica: “Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo di espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose”.
Impossibile non cogliere la saggezza di questi pensieri. Era la sua pedagogia della libertà.
Il merito non è l’amplificazione del vantaggio di chi già parte favorito.
Merito è dare nuove opportunità a chi non ne ha, perché è giusto e per non far perdere all’Italia talenti; preziosi se trovano la possibilità di esprimersi, come a tutti deve essere garantito.
I suoi ragazzi non possedevano le parole. Per questo venivano esclusi. E se non le avessero conquistate, sarebbero rimasti esclusi per sempre.
Guadagnare le parole voleva dire incamminarsi su una strada di liberazione. Ma chiamava anche a far crescere la propria coscienza di cittadino; sentirsi, allo stesso tempo, titolare di diritti e responsabile della comunità in cui si vive.
Aveva un senso fortissimo della politica don Lorenzo Milani.
Se il Vangelo era il fuoco che lo spingeva ad amare, la Costituzione era il suo vangelo laico. “Ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”.
Difficile trovare parole più efficaci.
Difficile non riscontrare lo stretto legame del suo insegnamento con la fede che professava: prima di ogni altra cosa, il rispetto e la dignità di ogni persona. Qui si intrecciano il don Milani prete, l’educatore, l’esortatore all’impegno.
L’impegno – educativo, e di crescita – richiede sempre, per essere autentico, coerenza. Spesso sacrificio. Al pari di tanti curati di montagna che hanno badato alle comunità loro affidate, Don Milani non si è sottratto. Era giovane. Chiedeva ai suoi ragazzi di non farsi vincere dalla tentazione della rinuncia, dell’indifferenza.
La scuola di Barbiana durava tutto il giorno.
Cercava di infondere la voglia di imparare, la disponibilità a lavorare insieme agli altri. Cercava di instaurare l’abitudine a osservare le cose del mondo con spirito critico.
Senza sottrarsi mai al confronto, senza pretendere di mettere a tacere qualcuno, tanto meno un libro o la sua presentazione.
Insomma, invitava a saper discernere.
Quel primato della coscienza responsabile, che spinse don Milani a rivolgere una lettera ai cappellani militari, alla quale venne dato il titolo “l’obbedienza non è più una virtù” e che contribuì ad aprire la strada a una lettura del testo costituzionale in materia di difesa della Patria per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza.
Padre David Maria Turoldo, amico di don Milani, disse di lui che “diventando disobbediente” in realtà obbediva a principi e regole ancora più profonde e vincolanti. Non certo a un capriccio o a una convenienza.
Non c’era integralismo nelle sue parole, piuttosto radicalità evangelica.
Sapeva di avere in mano un testimone. Un testimone che doveva passare di mano, a cui poi i suoi ragazzi “aggiungessero” qualcosa.
Un grande italiano che, con la sua lezione, ha invitato all’esercizio di una responsabilità attiva.
Il suo “I care” è divenuto un motto universale.
Il motto di chi rifiuta l’egoismo e l’indifferenza. A quella espressione se ne accompagnava un’altra, meno conosciuta.
Diceva: “Finché c’è fatica, c’è speranza”.
La società, senza la fatica dell’impegno, non migliora. Impegno accompagnato dalla fiducia che illumina il cammino di chi vuole davvero costruire.
E a don Lorenzo ha percorso un vero cammino di costruzione.
Intervento di Rosy Bindi per l’apertura Centenario don Milani
Signor Presidente della Repubblica, Eminenze Autorità, cari allievi di don Milani, cari giovani, care tutte e tutti.
Il 27 maggio 1923 nasceva a Firenze Lorenzo Milani. Ma noi siamo qui e non a Firenze, perché Barbiana, dove viene esiliato a 31 anni, diventa subito il luogo del suo riscatto e della sua salvezza. A don Bensi, suo padre spirituale, e alla madre che lo invitavano a considerare questa parrocchia un banco di prova provvisorio, rispondeva: “Non c’è motivo di considerarmi tarpato se sono quassù. La grandezza d’una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui s’è svolta. E neanche le possibilità di far bene si misurano sul numero dei parrocchiani”. Aveva ragione.
Questo centenario vorremmo fosse un’occasione per restituire Lorenzo Milani alla verità del suo magistero e della sua persona, per tornare ad ascoltare la sua voce.
Chi era don Milani? Un uomo inquieto, assetato di assoluto, che a vent’anni ha voltato le spalle ai privilegi della sua influente famiglia cosmopolita e borghese per farsi prete; un sacerdote sempre obbediente alla sua chiesa eppure insofferente
verso una fede praticata per abitudine o superstizione; un maestro esigente che non ha risparmiato critiche a un sistema scolastico selettivo e ai suoi allievi ha insegnato ad essere cittadini sovrani, consapevoli dei loro diritti. Sarebbe un errore contrapporre il prete al maestro, separare la lingua sacra dalla lingua profana, le lezioni di catechismo con la cartina della Palestina attaccata al muro della canonica e quelle di italiano fatte leggendo il giornale o i contratti di lavoro.
Ed è sbagliato considerare don Lorenzo un testimone del passato, una personalità scomoda solo per la Chiesa e l’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta.
Milani resta una spina nel fianco anche per noi. Il suo pensiero è chiaro, diretto, non ha bisogno di esegeti e ha ancora molto da dire. È sufficiente leggere i suoi scritti pubblici e il suo epistolario, senza limitarsi a poche pagine o alle frasi più famose. È possibile, grazie all’opera omnia, pubblicata nel 2017.Con questa ambizione, quella di essere fedeli a don Milani che non voleva essere ricordato per l’eroicità della sua storia ma per quella dei poveri, il Comitato nazionale ha programmato alcuni appuntamenti nazionali sui temi al centro della sua pastorale:
la chiesa, il lavoro, la Costituzione, la scuola.
Sul versante ecclesiale, sotto la guida del cardinal Betori, faremo dialogare don Lorenzo con la chiesa del suo tempo. Sono anni di attesa del Concilio Vaticano II, in cui a Firenze si incontrano personalità come Mons. Dalla Costa, Ernesto Balducci, Davide Maria Turoldo, don Facibeni, don Bensi, Fioretta Mazzei, Giorgio La Pira, Mons. Bartoletti. La scelta di farsi povero tra i poveri, di restare fino alla fine vicino ai più emarginati, con gli operai di Calenzano, con i piccoli montanari semianalfabeti del Mugello che gli hanno “insegnato a vivere”, appare del tutto coerente con quella chiesa in uscita, che abita le periferie del mondo, a cui ci invita Papa Francesco e alla quale dobbiamo convertirci.
Anche la radicalità con cui difende la dignità del lavoro è una ricerca delle “vie terrene di portare la Grazia”, è sete di giustizia che lo spinge a prendere posizione e contestare l’arroganza padronale. Milani vive lo scarto tra l’annuncio evangelico e una democrazia dei diritti ancora incompiuta. E si schiera. Si appella alla Costituzione per chiedere il rispetto del diritto di sciopero, il giusto salario, le case popolari, la scuola per tutti.
L’Italia è certamente cambiata, molti progressi sono stati fatti e molti diritti riconosciuti e conquistati. Ma resta vera la convinzione di don Lorenzo: “chi non ha parola non ha potere”.
Ed è facile immaginare a quali “sordomuti” il maestro di Barbiana vorrebbe aprire le orecchie e sciogliere la lingua: i giovani precari e sottopagati, i pensionati in fila alle mense della Caritas, i lavoratori morti e feriti nei cantieri e nelle aziende, gli immigrati sfruttati nelle nostre campagne.
L’esperienza di Barbiana non è facilmente riproducibile. La scuola era per don Lorenzo come un “ottavo sacramento” la via di una pastorale che deve “risvegliare nelle persone l’umano per aprirle al divino”. Ma sulla scuola e le sue finalità, il
maestro di Barbiana può essere ancora una guida preziosa. “La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde”, denunciava la Lettera a una professoressa.
Sono trascorsi 56 anni e in Italia l’ascensore sociale rappresentato dall’istruzione pubblica si è fermato. Il paese registra tassi di dispersione scolastica tra i più alti d’Europa, la percentuale di laureati è sotto la media europea e l’analfabetismo funzionale colpisce un terzo della popolazione tra i 16 e i 28 anni.
Con la sua scuola a tempo pieno, senza ricreazione e senza vacanze, più simile a un monastero benedettino che a una casa del popolo, don Lorenzo dimostrava di credere nella forza liberante del sapere: “Quando il povero saprà dominar le parole come personaggi, la tirannia del farmacista, del comiziante, del fattore sarà spezzata”. Con lui lo capirono anche i suoi allievi e i loro genitori, disposti a fare sacrifici pur di spezzare le catene dell’ignoranza.
Realizzare una scuola che include tutti e non scarta nessuno, che non fa “parti uguali tra diseguali”, che mette al primo banco i meno capaci, perché non c’è merito nel talento frutto del caso e di condizioni economiche e sociali spesso ereditate; non è un’utopia del secolo scorso. È il compito che ci consegna don Lorenzo Milani, che ci chiede di avere più cura e più attenzione alle nuove generazioni.
Milani ci sfida anche sul terreno della qualità della democrazia. Ai suoi allievi insegnava ad amare la politica, sinonimo di quel “I care”, contrapposto al “me ne frego” fascista, che era anche lo scopo della sua scuola: educare alla partecipazione, all’impegno verso gli altri, alla cura dei beni comuni, alla giustizia e alla pace.
Era una pedagogia esigente, che invitava a prendere posizione. “Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti e scioperanti”.
Parole di straordinaria attualità, in un paese in cui l’astensionismo ha raggiunto livelli preoccupanti e il dibattito sulle riforme della Costituzione – patto fondativo della Repubblica- non mobilita l’attenzione che sarebbe necessaria.
Se, come afferma Papa Francesco stiamo vivendo la terza guerra mondiale a pezzi dovremmo chiederci a cosa farebbe appello don Milani – al Vangelo? alla Costituzione? a entrambi? – per spronarci a un impegno più stringente in favore della pace e del disarmo nucleare.
Forse ci ripeterebbe la frase con cui ancora una volta ci ha convocato per salire a Barbiana: “Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri.”
Caro Presidente, Le siamo grati per aver accolto il nostro invito. La Sua presenza ha per noi un alto valore simbolico. Come nel 2017 il pellegrinaggio di Papa Francesco ci ha riconsegnato un grande prete e cristiano e la presenza qui del cardinale Zuppi lo conferma, così la Sua visita oggi ci consegna l’esempio di amore per la democrazia e la giustizia di un grande italiano.
Cardinale Matteo Maria Zuppi – Barbiana – 27 maggio 2023
Tutti dobbiamo leggere di nuovo “Lettere a una professoressa” e pensare che è scritto anche per noi. Accettiamo il rigore, l’intransigenza di don Milani. Non è eccesso, ma intelligente amore evangelico e umano. Don Milani non può essere ridotto a politically correct, esortazione o facile denuncia. Ferisce, perché svela l’ipocrisia delle parole vuote, della retorica che nasconde l’inedia e chiama questa per nome, senza sconti. Come disse di lui don Bensi, don Milani è «un diamante che doveva ferirsi e ferire». Ci mette di fronte alle nostre responsabilità di ruolo e di paternità, ci chiede di farci carico, di non fornire istruzioni per l’uso, che fanno sentire a posto chi le offre, e lasciano solo chi deve applicarle. Ci costringe, tutti, a venire ancora in questo “non luogo”, che in realtà è un piccolo universo, che ci fa cercare ovunque questi bambini di sempre, di oggi, e le tante Barbiane, nascoste nelle case delle periferie o nei campi profughi, dove accettiamo crescano migliaia di bambini senza futuro.
Don Milani non si lascia certo ridurre a oggetto da salotto senza cambiare il salotto e senza uscirne, proprio come aveva fatto lui, borghese, colto, che scelse di imparare diventando maestro, di stare dalla parte dei poveri per trovare la propria, profeta di cambiamento, eppure obbedientissimo prete della sua Chiesa, senza la quale non voleva vivere. Ecco la lezione di don Milani, per tutti, credenti e non: per cambiare le cose, più che innamorarsi delle proprie idee, bisogna mettersi nelle scarpe dei ragazzi di allora e di oggi, degli universali Gianni, e non darsi pace, finché non siano strappati da un destino già segnato; credere che possano essere quello che sono e che questo può essere raggiunto solo grazie ad una scuola che li difende più di qualsiasi altra maestra, una scuola che non certifica il demerito, che garantisce le stesse opportunità a tutti e non taglia la torta in parte uguali, quando chi deve mangiare non è uguale. Deve garantire a tutti quello che serve a ciascuno. Ci aiuta don Milani oggi ad accorgerci e confrontarci con le disuguaglianze, sentirne lo scandalo e interrogarci sul perché abbiamo permesso che sono cresciute negli ultimi venti anni. Don Milani è un uomo della parola, parola sempre sacra e profana insieme, perché è quella che ci rende immagine e somiglianza di Dio: «Ci sarà sempre l’operaio e l’ingegnere, non c’è rimedio.
Ma questo non importa affatto che si perpetui l’ingiustizia di oggi per cui l’ingegnere debba essere più uomo dell’operaio (chiamo uomo chi è padrone della sua lingua). Questo non fa parte delle necessità professionali, ma delle necessità di vita d’ogni uomo dal primo all’ultimo che si vuol dir uomo».
La sua è stata una vita brevissima, alla quale la Chiesa italiana e tutto il nostro paese deve molto: egli ha fatto della radicalità evangelica il luogo del suo amore alla vita e della sua fedeltà a Cristo. Da credente. «Quando tu non avrai
più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Beati quelli che hanno fame e sete”.
Tre aspetti della sua figura a partire da tre citazioni bibliche.
1. «Dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7,19). Con il passare degli anni ci siamo accorti dell’eredità di don Milani guardando alla sua fecondità generativa. La scuola popolare di S. Donato a Calenzano prima, e quella di Barbiana poi, sono stati un vero e proprio laboratorio educativo senza precedenti nella storia del Novecento in Italia. Don Lorenzo si è rivelato uno straordinario formatore di coscienze. La sua idea di educazione ha avviato processi. «Vedeva i ragazzi come potevano essere»1, non solo come erano di fatto. La periferia di Calenzano e Barbiana sono diventati patrimonio dell’umanità e riserva civica di democrazia per il nostro Paese. Scuola, lavoro, economia, politica e società si tengono insieme. Se i frutti di don Lorenzo li vediamo ancora oggi è perché il cardine della sua pedagogia è stato quello di accompagnare le persone ad assumersi responsabilità nella vita, a non accettare fossero prigionieri del consumismo, passivi e catturati dal tanto, offerto per non pensare. «Non vedremo sbocciare dei santi finché non ci saremo costruiti dei giovani che vibrino di dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale»2.
2. «E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio» (Mt 19,24). Nei suoi scritti ritorna spesso il riconoscimento di una scoperta essenziale: i poveri lo hanno convertito. «Devo tutto – scrive in Esperienze pastorali – quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Quello che loro credevano di stare imparando da me, son io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere»3. Da qui il suo impegno perché si superasse l’atavico pericolo che la povertà e la ricchezza venissero tramandate di generazione in generazione. Mettere i poveri al centro della vita trasforma la storia: Gesù Cristo ce lo ha insegnato con chiarezza e il priore di Barbiana li ha semplicemente messi al centro. Non si è Chiesa se non si è di tutti, ma particolarmente dei poveri, e, solo perché dei poveri, è di tutti.
3. «La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo» (Sal 118,22-23 citato in Mt 21,42). La Chiesa stessa ha faticato a comprendere il messaggio di don Milani. L’«esilio di Barbiana», come lo si è chiamato, è stato da lui accolto con sguardo di fede, nonostante fosse consapevole che potesse suonare come un’incomprensione, un insulto alla sua «onorabilità d’uomo, di cattolico e di sacerdote», come scrisse alla madre l’11 aprile 19634. La condanna nel 1958 di “Esperienze pastorali”, con la richiesta del ritiro dal commercio è rientrata solo nel 2014. Il dibattito intorno alla “Lettera ai cappellani militari” è finito nei tribunali. Don Lorenzo si è rivelato pietra di scarto, capace di essere anche pietra d’inciampo e pietra angolare. Grazie a papa Francesco, che il 20 giugno 2017 è salito qui per pregare sulla sua tomba e per raccoglierne l’eredità a nome di tutta la Chiesa, oggi avvertiamo l’importanza di farci illuminare dalle parole, dai gesti e dagli scritti di don Lorenzo.
Don Lorenzo ha trasformato un esilio in un esodo, ha preso per mano la Chiesa, rivendicando il suo servizio agli ultimi non come gesto di affermazione personale, ma come servizio ecclesiale. «Speravo di non esser più un “genio isolato e superiore”, ma una intelligente rotellina fra le tante della grande macchina di Dio». Ricorda alla Chiesa che le basta il vangelo e alla Repubblica che “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano l’uguaglianza e libertà è il “compito”, da non tradire e da stare male finché questo non avviene.
Pochi mesi prima di morire scrisse a Nadia Neri: «Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come premio.
Ti toccherà trovarlo per forza perché non si può far scuola senza una fede sicura. (…) Ti ritroverai credente senza nemmeno accorgertene»5. La sua testimonianza non appartiene al passato. Ci interpella e ci mette in cammino verso il futuro, senza tutte le sicurezze, ma con la vera risposta che è la passione evangelica e umana capace di generare vita. Coi giovani si scrive il presente e si cammina verso il domani. Della Chiesa e della società.
1 A. CORRADI, Non so se don Lorenzo, Feltrinelli, Milano 2012, 119.
2 L. MILANI, Esperienze pastorali, LEF, Firenze 1972, 241.
3 L. MILANI, Esperienze pastorali, 235.
4 L. MILANI, Alla mamma. Lettere 1943-1967, Marietti, Genova 1990, 390.
Il saluto del Ministro dell’Istruzione Valditara
Ringraziando la Presidente del Comitato Nazionale per il Centenario della nascita di Don Lorenzo Milani, Rosy Bindi, formulo i miei saluti più sentiti al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a S. Em. Card. Matteo Zuppi, alle altre autorità presenti e all’intero Comitato, augurando a tutti i partecipanti la migliore celebrazione di questo importante momento.
Una ricorrenza che fatalmente cade durante un periodo di grandi trasformazioni nella scuola italiana, e che ci invita, oggi più che mai, a riflettere sia sulle misure già in atto sia sui cambiamenti che intendiamo promuovere a favore dei nostri studenti, prendendo a modello coloro che in questo si sono distinti. Fra tali figure esemplari, c’è quella di Don Lorenzo Milani.
Perché la vita e l’opera del maestro-sacerdote di Barbiana sono state profondamente, in maniera totalizzante, dedicate all’insegnamento inteso come forma di aiuto e guida concreta e affinché i giovani e i meno giovani traessero dall’apprendimento forza e strumenti per affrontare le difficoltà della vita.
Tali princìpi ispira tori del pensiero di Don Milani possono essere di stimolo ancora oggi per ispirare le scelte più opportune per l’educazione dei nostri giovani.
Ritengo, infatti, che il suo modo di interpretare la scuola sia stato per molti aspetti di una modernità e di una lungimiranza sorprendenti nel loro disarmante nitore. Scopo di una scuola utile ed efficace non può che essere questo: arrivare al cuore dei giovani, scoprirne e coltivarne i talenti, formare persone autonome nel pensiero e sicure nell’agire, per sé stesse e per il bene comune, sviluppando qualità e competenze che saranno preziose per il futuro di tutti.